Kurt Cobain: la fine dell'innocenza.

11.04.2024
Quando ero nel pieno degli anni di studio all'Universita' di Bologna, tra la fine degli anni novanta e i primi duemila, molti dei miei coetanei erano in fissa per i Nirvana. Sfoggiavano magliette con la copertina di Nevermind e il viso di Kurt Cobain. Io faticavo un po' ad appassionarmi alla band di Seattle, che suonava troppo cupa per i miei gusti del tempo. Preferivo ascoltare chi cantava di voler vivere per sempre a chi chiedeva ripetutamente di essere violentato (in realtà Rape me era un pezzo di denuncia nei confronti della violenza sulle donne, ma che ne sapevo) o manifestava istinti suicidi (la cosa era molto più complessa di così ma, ancora, che ne sapevo). Per cui sì, bello Nevermind, ma preferivo altro. E poi mi piaceva schierarmi un po' per principio contro le icone musicali più inflazionate, da Bob Marley a Jim Morrison. E Cobain, superficialmente, mi sembrava una di quelle.
Ci ho messo qualche anno a capire meglio Kurt Cobain, morto suicida trent'anni fa (il 5 aprile 1994). E, come sempre, più che dai documentari e dai libri le illuminazioni arrivano dalle canzoni. Nel mio caso, in particolare, da Polly, sesto brano di Nevermind. Quel semplice riff l'avevo anche strimpellato da ragazzino ma, non essendo abituato a leggere bene i testi, mica avevo capito di cosa parlava Polly che, come Rape me, è un pezzo sullo stupro.
Polly ricorda un fatto realmente accaduto. Nel 1987 una ragazzina di 14 anni stava tornando da un concerto a Tacoma, nello stato di Washington, e fu catturata da Gerald Friend, un uomo che aveva già scontato anni di carcere per un caso di violenza sessuale. Friend la portò nella sua casa mobile, la torturò e la violentò. La ragazza riuscì a scappare e a denunciare Friend, che finì di nuovo in prigione, dove si trova tutt'ora. Quel "Polly vuole un cracker" all'inizio, improvvisamente mi era apparso in tutta la sua brutalità. E la scelta di Cobain di assumere la prospettiva del carnefice rende il messaggio contro la violenza ancora più forte, anche se disturbante. Kurt Cobain a Tokyo, febbraio 1992. (Koh Hasebe, Shinko Music/Getty)
I Nirvana, a conferma di questo, fecero diverse esibizioni a concerti di beneficenza per le vittime di stupro e la difesa dei diritti delle donne. E il fatto che Cobain riuscisse a toccare temi così profondi e difficili con un pugno di accordi, con poche parole affilate come coltelli, non era di certo comune. Era materia per grandi. Bob Dylan, dopo aver sentito per la prima volta il brano a un concerto, sentenziò: "Quel ragazzo ha un cuore". Insomma, l'ovvio mi è apparso quasi all'improvviso solo con anni di ritardo. Meglio tardi che mai.
Trovo invece che, a trent'anni di distanza, non ci sia molto altro da dire sul lato umano di Cobain, una trappola nella quale continuiamo a cadere, tirati per la giacchetta dalla spettacolarizzazione che ha sempre accompagnato il culto delle rock star e ha accompagnato in modo morboso la morte dell'artista statunitense. Mi sento solo di ribadire una cosa già detta più volte, e meglio, da altri: Cobain, attraverso le sue canzoni, ci aveva mostrato prima di altri che il nuovo millennio immaginato da noi occidentali benestanti era molto meno roseo di quello che sembrava. Oggi trovo in Something in the way (una canzone immensa), in Heart-shaped box o in You know you're right la stessa inquietudine dei Radiohead di Kid A. Oggi Cobain, The national anthem, No logo di Naomi Klein, il G8, sembrano tutti piccoli pezzi lì per lì sottovalutati della fine della mia innocenza. E di quella di tanti altri. 
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